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Sabrina ALESSANDRINI, Francesca GISBUSSI

 

Classi plurilingui e pluriculturali in Italia: la parola di apprendenti originari dell’Africa francofona. Quali criticità, quali approcci?

 

 

Sabrina Alessandrini
Università di Macerata
s.alessandrini3@unimc.it

Francesca Gisbussi
Transit-Lingua
francesca_gisbussi@yahoo.it


Abstract

Students from African migration represent a significant percentage in Italian schools. Although the problems created by multilingual and multicultural classes have often been dealt with valid strategies and tools, education and training are still a source of trouble and conflict from a linguistic, a behavioral and an integrative point of view. This paper presents the results of a qualitative study conducted on a sample of 27 teenagers born in Ancona (Italy) from African parents. The research focuses on the analysis of these students’ psychosocial and didactic difficulties, on their inclusion in their native society and at School.

Résumé

Les élèves issus de l’immigration africaine représentent un pourcentage important dans les écoles italiennes. Bien que les problèmes engendrés par des classes plurilingues et pluriculturelles aient souvent été traités par le biais de stratégies et d’outils valables, l’éducation et la formation demeurent une source de difficultés d’un point de vue linguistique, comportemental et intégratif. Cet article présente les résultats d’une étude qualitative menée sur un échantillon de 27 adolescents d’origine africaine nés à Ancône (Italie). La recherche vise à analyser les difficultés psychosociales et didactiques de ces élèves, ainsi que leur inclusion dans leur société natale et à l’école.


 

Introduzione

Il crescente numero di studenti stranieri nella scuola italiana è un indice significativo della progressiva strutturazione pluriculturale della società. Gli ultimi anni sono stati oggetto di un rapido incremento della popolazione immigrata nell’istituzione scolastica: in base ai dati statistici aggiornati al 29 luglio 2022 e pubblicati dal Servizio Statistico del MIUR, gli studenti provenienti dalla migrazione ammontano a 865,388 unità, corrispondenti al 10,3% della popolazione scolastica. Essi sono per il 44,95% di origine europea, per il 26,9% di provenienza africana e per il 20,2% asiatica (MIUR, 2022: 27). Importante fonte di arricchimento reciproco, tale presenza solleva nel contempo molteplici questioni relative all’integrazione, al successo/insuccesso scolastico, all’inclusione sociale. Il superamento dei modelli parentali, l’ambiguità dell’identificazione di questi studenti con diversi sistemi di valori, i comportamenti problematici osservati in ambiente scolastico ed extrascolastico, inaspriti da perturbazioni in seno all’ambiente familiare, costituiscono le principali sfide alla loro integrazione nella scuola e nella società italiana.

Come l’esilio per i genitori, la scuola rappresenta per questi ragazzi un vero e proprio sradicamento: essa è il luogo di rottura con i valori, con le tradizioni, con le consuetudini dell’ambiente d’origine, il luogo in cui avviene il confronto con un sistema concettuale diverso, con nuove regole educative, con l’esigenza della competizione, acuiti da una frattura linguistica. La riuscita scolastica dei figli di migranti risponde dunque ad un insieme complesso e indissociabile di fattori individuali, sociali, linguistici e culturali che rimandano ineluttabilmente allo statuto dei genitori nella società di accoglienza.

Sulla base di queste premesse, il presente contributo si propone di analizzare la posizione di studenti provenienti dalla migrazione nel sistema scolastico italiano, le dinamiche psicosociali e linguistico-culturali alla base di processi discriminatori e d’insuccesso scolastico e il ruolo esercitato da una didattica del plurilinguismo e del pluriculturalismo – così come di una pedagogia dell’intercultura – nella valorizzazione di questo capitale umano e nello sviluppo del suo pieno potenziale. Lo studio, svolto nell’ambito del ciclo XXIV del dottorato PEFLiC (Politica, Educazione e Formazione linguistico-culturali) dell’Università degli studi di Macerata e aggiornato nell’ottobre 2020, si basa un’inchiesta qualitativa ottenuta da questionari semistrutturati e interviste guidate a 27 adolescenti provenienti dalla migrazione in età compresa tra i 13 e i 20 anni, nati in Italia da famiglie d’immigrati originari dell’Africa francofona.

La scelta del corpus, definita attorno a precise categorie, è avvenuta secondo una selezione che rispondesse a particolari criteri rappresentativi di un fenomeno sociale.

La rigidità di tali criteri, corrispondenti a requisiti anagrafici, linguistici, biografici e di statuto, ha consentito di restringere il campo d’indagine ad uno specifico gruppo di individui:

  • criteri biografici: tutti i soggetti campione sono nati in Italia;
  • criteri linguistici: tutti i soggetti campione hanno ambo i genitori provenienti da un paese francofono;
  • criteri geografici: conseguenza dei criteri linguistici, l’intero corpus è composto da ragazzi africani, prevalentemente magrebini;
  • criteri anagrafici: tutti i soggetti campione sono adolescenti in età compresa tra i 12 e i 20 anni;
  • criteri di statuto: tutti i soggetti campione sono studenti.

L’accesso ai dati anagrafici di tutti gli iscritti ha permesso di identificare ventisette soggetti che rispondessero ai requisiti richiesti. Di questi, 13 sono di origine tunisina, 12 di origine marocchina, uno studente originario della Repubblica Democratica del Congo e uno originario delle isole Mauritius. Il campione è stato selezionato all’interno di cinque istituti d’istruzione secondaria della provincia di Ancona:

  • Istituto Comprensivo Paolo Soprani di Castelfidardo (AN): Scuola secondaria di I grado;
  • Istituto d’Istruzione Superiore Corridoni–Campana di Osimo (AN): Istituto Tecnico Commerciale, Geometri, Liceo Classico, Liceo Scientifico;
  • Istituto Tecnico Professionale Laeng–Meucci di Osimo–Castelfidardo (AN);
  • Istituto d’Istruzione Superiore Einstein–Nebbia di Loreto (AN): Istituto Tecnico Economico, Istituto Professionale Alberghiero.

I questionari sono stati strutturati in aree tematiche riguardanti le autopresentazioni, le lingue e culture d’origine, la scuola, la famiglia, il tempo libero. L’area relativa alla scuola, di cui ci occupiamo nel presente contributo, indaga dinamiche di inclusione/esclusione, di successo/insuccesso scolastico e di valorizzazione/penalizzazione del patrimonio linguistico-culturale pregresso. Le interviste narrative semi-strutturate sono state costruite partendo da una sequenza standard di domande (uguali per tutti), le quali sono state ampliate e adattate a ciascun informante sulla base delle informazioni estrapolate dai questionari al fine di chiarirne la comprensione e approfondirne il contenuto.

1. Gli alunni con cittadinanza non italiana nel sistema scolastico italiano

La posizione di studenti provenienti dalla migrazione nel nostro sistema educativo ci pone di fronte ad una doppia questione: verificare l’esito sociale e integrativo della prima ondata migratoria, quella dei loro genitori, e sondare l’approccio dell’istituzione scolastica di fronte ad un’utenza sempre più plurilingue e pluriculturale.

La loro presenza nei diversi ordini di scuola corrisponde al 35,8% per la scuola primaria, mentre nella secondaria di I e II grado, essi costituiscono rispettivamente il 21,3% e il 25,2 % sul totale (MIUR 2022: 14). Nella secondaria di II grado, secondo i dati raccolti dal MIUR, il 44,2% opta per gli istituti tecnici, il 35,5% per gli istituti professionali e il 3,8% per i corsi regionali di istruzione e formazione professionale. Solo il 16,5% sceglie i licei (MIUR 2022: 46). Tali percentuali possono variare a seconda della valutazione di uscita dalla scuola secondaria di I grado.

I dati ottenuti dal nostro campione (v. Fig. 1) sono sulla stessa linea della tendenza nazionale: tra gli iscritti alla scuola secondaria di secondo grado, il 12% degli studenti frequenta i licei, il 42% frequenta istituti tecnici e professionali e il 46% istituti alberghieri:

Figura 1. Istituti d’istruzione frequentati

Nella presente rilevazione va evidenziata inoltre una composizione sociale prevalentemente popolare ‒ basso livello di scolarizzazione parentale (licenza elementare 33%, secondaria di I grado 30%, secondaria di II grado 30%, laurea 7%), impiego in settori poco qualificati del mercato del lavoro (i padri sono per il 68% operai, le madri per il 50% casalinghe) ‒ la quale costituisce già di per sé un indicatore sull’orientamento formativo dei ragazzi, presumibilmente proiettati verso un ingresso precoce nel mondo del lavoro (BOURDIEU, PASSERON 1972: 229). A tale proposito, J. Minces sottolineava come, nel contesto francese, lo svantaggio linguistico e culturale di adolescenti di origine migratoria portasse docenti e famiglie a indirizzare questi studenti verso percorsi formativi brevi, verso sbocchi professionali immediati e poco qualificati, giustificando tale decisione con esigenze economiche personali e familiari (MINCES 1997: 179).

Alla selezione operata al momento dell’orientamento verso percorsi di breve o media durata spesso si aggiunge la discrepanza tra l’anno scolastico in corso e l’età anagrafica corrispondente. Tale dato differenzia significativamente gli studenti autoctoni da quelli provenienti dalla migrazione: «Nell’anno scolastico 2020/2021 gli studenti italiani in ritardo sono il 7,5% contro il 26,9% degli studenti con cittadinanza non italiana. Il massimo divario si riscontra nella secondaria di II grado dove le percentuali dei ritardi diventano rispettivamente 16,0% e 53,2%» (MIUR 2022: 54). Tra i ragazzi facenti parte del nostro corpus, suddetto fenomeno è piuttosto diffuso: negli istituti professionali, in modo particolare, più della metà degli studenti (9 su 17) risulta frequentare almeno una classe inferiore rispetto a quella corrispondente all’età anagrafica. Il caso più emblematico riguarda un ragazzo di 18 anni ancora iscritto al primo anno dell’Istituto Alberghiero.

La discrepanza tra età anagrafica e anno scolastico in corso costituisce inoltre una delle principali cause di abbandoni e dispersione scolastica. I dati rilevati dal ministero mostrano infatti come i tassi di scolarità degli alunni figli d’immigrati sono prossimi a quelli degli italiani per le fasce di età che vanno dai 6 ai 13 anni (100% degli studenti italiani e stranieri) e dai 14 ai 16 anni (94,1% di studenti stranieri rispetto al 100% degli italiani). Nell’ultimo biennio di secondaria di II grado il tasso di scolarità degli studenti stranieri si riduce invece fino al 77,4% (MIUR 2022: 12). All’interno del nostro corpus è stato rilevato, in particolare tra gli iscritti a scuole professionali, un percorso irregolare dato per lo più dall’inserimento di questi giovani in classi non corrispondenti alla loro età e da bocciature che accentuano il ritardo scolastico. Nelle testimonianze dei nostri adolescenti questi fenomeni risultano piuttosto diffusi:

Pure quelli della mia classe vogliono interrompere, cioè dopo l’esame di qualifica, l’esame di stato di terzo superiore, vogliono smettere. […] A sedici anni pure gli amici miei, a parte quelli della classe, hanno interrotto (Ameen).

Lavora tutti perché hanne lasciato in terzo. […] So’ndati tutti a lavorare in fabbrica (Muhammad).

Alcuni ragazzi … che hanno smesso ad esempio con le medie oppure … dopo che sono stati bocciati il primo anno … ad esempio all’IPSIA così, hanno smesso (Abdul).

Queste dinamiche preannunciano il futuro degli adolescenti in termini di disuguaglianze sociali e di scarsa mobilità occupazionale tra la generazione dei padri e quella dei figli, in quanto l’insuccesso scolastico dipende in larga parte dalla misura in cui le scuole riflettono i rapporti di potere esistenti nella società.

1.2 Nuove generazioni a scuola: dinamiche discriminatorie e percezione di sé

L’ingresso nel sistema scolastico costituisce per i ragazzi provenienti dalla migrazione il momento in cui si scopre la differenza con l’altro dovuta alle proprie origini (NOIRIEL 1988: 217). Tale differenza, se non adeguatamente gestita, rischia di sfociare in percezioni inferiorizzanti di sé, della propria lingua e cultura, del proprio posto nella società. Come dimostrato dall’analisi pionieristica e sempre attuale di Bourdieu e Passeron, facendo propria la cultura delle classi dominanti, la scuola «ne maschera la natura sociale e la presenta come la cultura oggettiva, indiscutibile, rifiutando allo stesso tempo le culture degli altri gruppi sociali. La scuola legittima in tal modo l’arbitrario culturale» (BOURDIEU, PASSERON 1972: 229). Alcuni adolescenti, consci di tale meccanismo, hanno denunciato con grande lucidità la restituzione di questa immagine inferiorizzante:

Non ti fanno sentire a tuo agio. […] Ai colloqui comincia a dire: “tua figlia non partecipa…dev’essere più aperta” L’anno scorso ero peggio…io l’anno scorso non parlavo nemmeno. Quest’anno intervengo, alzo la mano, rispondo, lo chiamo sempre, me faccio vedé che intervengo, lo chiamo…a lui non gli sta bene (Nedma).

So’ stato bocciato al tecnico so’ stato bocciato anche qui. […] Più che altro è per il comportamento. […] Perché io c’ho un modo de scherzà che … ai professori non je va giù. […] Io fo’ le stesse cose che fanno tutti su sta scola però io sto … io so’ a parte, cioè pescato dal basso, so’ messo là, sto là, so’ a parte. Come, cioè, me mettono a parte (Ahmad).

Le origini e l’appartenenza ad un gruppo dotato di condizioni svantaggiate sul piano economico e socioculturale innescano un effetto patogeno che si palesa in disagi psicologici (fragilità, insicurezza, bassa autostima) e comportamenti disfunzionali (demotivazione, comportamenti oppositivi). Tali criticità, sostiene Listorto, penalizzano capacità cognitive, affettive e relazionali (LISTORTO  2008: 12) e divengono il pretesto per minimizzare il ruolo della scuola e attribuire elementi di problematicità alle caratteristiche soggettive degli studenti, alla loro scarsa adattabilità alle politiche educative vigenti.

La restituzione di un’immagine di sé svalutata può avvenire attraverso modalità molto diverse. Da un lato la scuola, poggiando sull’uguaglianza formale di tutti gli studenti, consacra, ignorandole, le disuguaglianze socioculturali (BOURDIEU, PASSERON 1976: 95); dall’altro lato, costruendo un sistema di giustificazioni, attua iniziative di apparente aiuto (ad esempio alleggerimento o selezione del materiale e/o del lavoro scolastico, come previsto dalla normativa BES, ovvero la Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 avente lo scopo di tutelare gli alunni con Bisogni Educativi Speciali garantendo loro la possibilità di beneficiare di un apprendimento personalizzato, come previsto dalla Legge 53/2003), le quali in realtà, affermava già  A. Sayad, naturalizzano la discriminazione fino a costituirla a sistema, fino a renderla invisibile (SAYAD 2006: 39), accettabile, condivisa.

Tali processi, di cui gli studenti possono avere piena, parziale o nessuna consapevolezza, giocano un ruolo decisivo nel loro futuro integrativo: la combinazione di fattori stigmatizzanti, rinforzata dall’insuccesso scolastico, fa sì che il ragazzo si senta umiliato dall’esperienza formativa e le conseguenze sono tanto più forti quanto più attaccano l’identità, l’appartenenza, la definizione del sé e del proprio gruppo (MARGALIT 1999: 13). Tale umiliazione innesca meccanismi di rinuncia e/o di rifiuto, come dimostrato dai fenomeni di dispersione scolastica. La scuola, scrive M. Ambrosini, è ancora oggi «l’istituzione sociale in cui si determinano le premesse per il confinamento dei figli degli immigrati ai margini della buona occupazione e delle opportunità di effettiva integrazione nelle società ospitanti» (AMBROSINI 2005: 179). Da un’inchiesta sulla relazione tra società e scuola nel nostro paese, è emerso come ad una relativa democratizzazione del sistema scolastico si contrappongano disuguaglianze sociali significativamente marcate (DUBET, DURU-BELLAT, VERETOUT 2010: 183). Benché la discriminazione verso i giovani provenienti dalla migrazione si sia a lungo nascosta dietro il loro inserimento nell’apparato educativo e formativo, il nesso tra disuguaglianze scolastiche e riproduzione sociale è ancora presente.

Per questo motivo, la principale missione della scuola consiste nel trovare il giusto compromesso tra l’universo scolastico e quello familiare per fare di ciascun ragazzo, qualunque siano le sue origini e le sue particolarità, un cittadino accolto, formato e incluso.

2. Seconde generazioni e rendimento scolastico: difficoltà didattiche e responsabilità sociolinguistiche

Poiché il successo scolastico di studenti provenienti dalla migrazione costituisce un importante indicatore del loro grado di adattamento alla cultura della scuola, abbiamo cercato di sondare il rendimento generale dei nostri ragazzi, al fine di comprendere se e in che modo la scuola sia in grado di valorizzarne i talenti e di incoraggiarne lo sviluppo di valori intellettuali e culturali. Partendo dal rilevamento delle loro discipline preferite (v. Fig. 2) e di quelle meno amate (v. Fig. 3), abbiamo cercato, col supporto delle interviste e le informazioni ottenute attraverso un’autovalutazione di tale rendimento, di risalire alle principali difficoltà didattiche riscontrate e di comprenderne le cause.

Figura 2. Discipline preferenziali

Con una percentuale pari al 34% (17% inglese e 17% francese), le lingue straniere risultano essere, se considerate come un’unica area disciplinare, le materie che suscitano il maggior interesse. Se valutate separatamente, la percentuale ottenuta da ciascuna lingua corrisponde a quella rilevata anche per la matematica (17%), la quale andrebbe a costituire la terza materia preferita dai ragazzi.  Una percentuale lievemente inferiore riguarda le materie cosiddette “di indirizzo” (15%), che comprendono cucina, moda, elettronica e ricevimento. L’ 11% degli studenti ha menzionato la storia, mentre l’8,5% l’educazione fisica. Un ulteriore 8,5% non ha dichiarato alcuna preferenza. L’italiano, con il suo 6% di risposte, risulta la materia meno amata. Questi risultati sembrano particolarmente significativi al fine della ricerca di una correlazione tra le discipline preferenziali (lingue straniere) e quella meno apprezzata (italiano).

Dalla predilezione per gli insegnamenti delle lingue straniere, emerge innanzitutto un profilo plurilingue e un’apertura verso il mondo internazionale da parte dei ragazzi, la cui scelta dell’istituto d’istruzione superiore è avvenuta proprio in funzione della presenza di più lingue all’interno dell’offerta formativa: «Si [la scelta della scuola] è dovuta a questo. Proprio perché alle medie il fra … mi piaceva, ero molto attaccata al francese … all’inglese, quindi … ho detto scelgo questa scuola» (Narjes); «Secondo me, cioè per il settore che … abbiamo noi di ricevimento dovrebbe esse valorizzato tantissimo sia l’inglese che il francese» (Yamina).

Si scorge, dietro l’esigenza da parte di questi giovani di aprirsi a nuovi repertori, la propria (auto)percezione di locutori plurilingui e la necessità, forse inconsapevole, di andare oltre il proprio repertorio di partenza per aprirsi a nuove possibilità espressive, a nuove rappresentazioni sociali e culturali, individuali e collettive. In un contesto sociale allargato, tale necessità è anche il risultato della relazione inestricabile tra costruzione identitaria e apprendimento delle lingue, le quali, secondo B. Norton (2000), orientano gli investimenti linguistici degli apprendenti (NORTON 2000). Per questi motivi, tali dati suggeriscono come le lingue straniere siano le discipline che più di altre consentono di valorizzare l’identità plurilingue e pluriculturale degli studenti, le loro competenze pregresse, i loro saper fare linguistico‒(inter)culturali.

Durante la compilazione del questionario i ragazzi sono stati inoltre invitati a rispondere al quesito inverso, ovvero quello relativo alle discipline più ostiche:

Figura 3. Discipline meno apprezzate

Il più alto numero di risposte (34%) indica la matematica, seguito da una significativa percentuale di coloro che non hanno individuato alcuna disciplina (19%). Il 13% degli apprendenti ha menzionato l’italiano, un ulteriore 13% la lingua inglese, il 6% storia e alimentazione, infine un 3% del campione ha indicato ciascuna delle seguenti discipline: latino, diritto e disegno tecnico. Nel giustificare tali risultati, i dati qualitativi evidenziano come le difficoltà più frequentemente riscontrate siano dovute a tre principali fattori:

  • la responsabilità dei docenti nell’approccio metodologico;
  • lo scarso o assente supporto nello svolgimento dei compiti a casa;
  • le difficoltà legate alla competenza linguistica in italiano, specie se in relazione con lo standard linguistico richiesto dalla scuola.

Rispetto al primo fattore, gli studenti hanno menzionato i criteri di valutazione, l’approccio metodologico e i tempi di svolgimento del lavoro, ritenuti non idonei ai tempi di apprendimento: «Ho qualche problema con la prof. perché … spiega troppo veloce. Certe volte la capisco, ma dopo quando fa subito una cosa nuova … dopo ne fa subito un’altra … troppo veloce non … non je se fa a stargli … dietro» (Adil).

Il numero ridotto di testimonianze relative a questo aspetto, unito all’assenza di un riscontro da parte di coetanei autoctoni, ci impedisce tuttavia di comprendere se una tale considerazione sia estendibile all’intero gruppo classe, o se, al contrario, le reazioni attribuite ai tempi di apprendimento siano legate all’origine dei ragazzi e ai relativi retroscena linguistici e culturali. Su questo punto, le scienze sociali non mancano di segnalare il ruolo esercitato dal livello di istruzione parentale nella riuscita scolastica dei figli, mettendo in relazione i loro insuccessi con la provenienza socioculturale dei genitori. Generalmente caratterizzata da un livello d’istruzione piuttosto basso, la famiglia migrante rischia infatti di mantenere i ragazzi in una situazione di svantaggio permanente poiché non in grado di offrire un concreto supporto nel loro percorso formativo. La famiglia, sottolinea Ambrosini, «rappresenta il più importante predittore del successo scolastico, non diversamente da quanto accade per la popolazione nativa» (AMBROSINI 2004: 35). Il livello di istruzione parentale, la professione/posizione sociale occupata, la chiusura e/o apertura verso la realtà d’accoglienza e l’importanza accordata allo studio da parte dei genitori sono aspetti che influenzano i percorsi formativi della prole.

Per quanto riguarda il terzo ed ultimo fattore, ovvero le difficoltà attribuibili a deficit linguistici, è stato rilevato come il livello di padronanza in italiano (scritto e orale) e l’uso di un registro linguistico inadeguato siano i principali responsabili delle criticità didattiche riscontrate. Con la questione linguistica, il concetto di «riproduzione» riemerge inesorabilmente anche ai nostri giorni: i meccanismi di relegazione sociale continuano infatti ad agire in presenza di situazioni di “svantaggio” linguistico-culturale. Nella testimonianza di un’alunna, ad esempio, le difficoltà riscontrate in italiano risiedono soprattutto nella differenza tra un registro linguistico più sostenuto utilizzato dai professori e uno più colloquiale comunemente impiegato nelle conversazioni con coetanei: «Io non parlo sempre con loro [i professori]. Sto a sentì e basta. Però trovo difficoltà a capirli.  La lingua è un po’ difficile, parlano più difficile. […] Con gli amici si parla … con parole … facili» (Haifa). In un secondo esempio, l’alunna in questione si vede costretta allo sforzo di memorizzare le lezioni “parola per parola” al fine di raggiungere il linguaggio specifico auspicato dai docenti: «devo studiare parola per parola. Queste pagine stracolme de parole che … devi imparare appunto parola per parola, perché non è che gli puoi dire … le cose poco … e poi i professori notano tanto, il linguaggio» (Amal)

Come sottolineavano Bourdieu e Passeron, e come si riscontra ancora dalle testimonianze dei ragazzi, la disuguale distribuzione del capitale linguistico scolasticamente proficuo determina la relazione tra l’origine sociale e il successo scolastico (BOURDIEU, PASSERON 1972: 178). L’italiano che caratterizza la comunicazione con i genitori, fatto di errori, esitazioni, contaminazioni, crea una distanza che separa gli studenti dalla norma linguistica richiesta dalla scuola: «Loro non parlano bene l’italiano» (Haifa); «mi padre non capisce. Non capisce … l’italiano» (Majd); «[mia madre] non è che lo parla perfettamente, certe parole non, non le sa!» (Ameen).

La scuola, infatti, utilizza griglie di valutazione ‒ stabilite dal Collegio Docenti e inserite in allegato al documento obbligatorio di programmazione P.T.O.F. (Piano Triennale dell’Offerta Formativa, previsto dal comma 14 della Legge 107 del 13-7-2015) ‒ volte a verificare la correttezza sintattica, lessicale e stilistica per le prove scritte, e le capacità di argomentazione, la ricchezza e correttezza semantica e lessicale per le prove orali.  Poiché la scuola definisce criteri socialmente riconosciuti di correttezza linguistica, va da sé che la distanza tra il modello di padronanza simbolica richiesta dalla scuola e la padronanza effettiva che l’apprendente deve alla sua prima educazione determinano il valore di tale capitale linguistico sul mercato scolastico (BOURDIEU, PASSERON 1972: 178). In studenti provenienti dalla migrazione, difficoltà scaturite dall’esposizione ad un uso scorretto della lingua si accompagnano inoltre ad un apprendimento linguistico dell’italiano piuttosto tardivo, effettuato per lo più in seno all’istituzione scolastica: «L’italiano l’ho imparato … quando andavo a scuola … con gli amici, quando ero più piccolo, poi andando all’asilo, alle elementari» (Adil); «L’italiano tanto l’ho imparato qua perché andavo … so’ andato a scuola … qua normalmente, dall’asilo nido fino adesso» (Anees).

La combinazione di queste due modalità di acquisizione ha generato inevitabilmente un uso scorretto e ristretto della lingua. Tali difficoltà possono compromettere una serena percezione di sé, innescando fenomeni d’insicurezza linguistica e autocensura, che a loro volta si ripercuotono sui risultati scolastici. La scuola, per questo motivo, è investita di una missione salvifica: da essa ci si aspetta giustizia sociale, valorizzazione del merito, pari opportunità. Tali esigenze sono tanto più urgenti quanto più significativa è la crescita e la diversificazione dell’utenza.

3. Educazione plurilingue e interculturale tra teoria e prassi

Sintetizzando, dalle parole degli studenti intervistati emerge nel contesto della ricerca la permanenza di problematiche legate alla marginalità socioeconomica e culturale e agli ostacoli alla riuscita scolastica dovuti in gran parte a competenze inadeguate nella lingua dello studio, ovvero l’italiano (FAVARO 2007: 27).

La persistenza di tali criticità continua dunque a costituire un freno alla coesione sociale, che è stata oggetto di interesse, riflessione teorica e indicazioni programmatiche da parte delle istituzioni europee fin dagli anni ’80 del secolo scorso, quando ha iniziato a strutturarsi il discorso politico sull’intercultura. Nei documenti europei, inizialmente focalizzati sull’integrazione degli immigrati e poi sulle problematiche delle seconde generazioni, si evidenzia da un lato la necessità di continuare a trasmettere, almeno in parte, le lingue e le culture degli immigrati, dall’altro si sottolinea che la società di accoglienza deve sviluppare una disposizione interculturale (GOBBO 2004: 43).

Alla pedagogia interculturale, che si occupa di culture ‘in situazione’, cioè nel contatto, è stato affidato il compito di evitare il prevalere di un concetto ‘storico’, e per questo immobile, di cultura. Al dialogo interculturale, definito come «scambio di vedute aperto e rispettoso fra persone e gruppi di origini e tradizioni etniche, culturali, religiose e linguistiche diverse, in uno spirito di comprensione e di rispetto reciproci» (CONSIGLIO D’EUROPA 2008: 17), spetta dunque il compito di scongiurare visioni stereotipate di altre culture ed estremismi, oltre che di contribuire all’integrazione in ambito politico, sociale, culturale ed economico.

Esso ha una finalità di conoscenza delle diverse «abitudini e visioni del mondo» (ibid.) e di sviluppo degli individui e di atteggiamenti improntati a tolleranza e rispetto. Se ne mette quindi in luce il valore per la gestione della «pluriappartenenza culturale» in contesti multiculturali, in quanto «strumento che permette di trovare sempre un nuovo equilibrio identitario, rispondendo alle nuove aperture o esperienze e aggiungendo all’identità nuove dimensioni, senza per questo allontanarsi dalle proprie radici» (CONSIGLIO D’EUROPA 2008: 19). Si evidenzia perciò la ‘porosità’ dell’identità contro gli «scogli delle politiche identitarie» miranti a rendere invalicabili i confini tra le diverse appartenenze. Tale porosità dovrebbe diventare dunque un patrimonio comune sia agli autoctoni, sia a chi proviene dalla migrazione.

Le istituzioni europee (con l’ausilio delle scienze sociali, psico-pedagogiche, linguistiche etc.) si sono a lungo interrogate su come favorire la costruzione di identità plurali e ‘mobili’, aperte alla diversità linguistica e culturale e in grado di convivere in una società complessa.

Tra le competenze considerate necessarie per il dialogo interculturale sono annoverate in particolare quelle linguistiche (PARLAMENTO EUROPEO e CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA, 2006).

È stato infatti ribadito il principio della salvaguardia delle lingue minoritarie (già nella CARTA EUROPEA DELLE LINGUE REGIONALI O MINORITARIE, 1992) e parallelamente si è evidenziata la necessità per i membri delle minoranze di apprendere la lingua maggioritaria ai fini di una piena cittadinanza.

Come già sottolineato, infatti, tra gli ostacoli alla riuscita scolastica degli alunni di origine straniera, il possesso di competenze inadeguate nella lingua dello studio occupa un ruolo di primo piano. Ciò richiede risposte professionali relative all’insegnamento dell’italiano come L2 e alla gestione delle classi plurilingui (FAVARO, 2007: 27).

L’apprendimento linguistico ha inoltre il compito di costruire rappresentazioni non stereotipate dell’alterità, di sviluppare atteggiamenti di apertura e curiosità verso gli altri, di favorire la scoperta di nuove culture e l’apprezzamento e l’arricchimento derivanti da scambi con soggetti dalle identità sociali e culturali diverse. Continuando la nostra rapida panoramica, dopo il già citato Libro bianco per il dialogo interculturale (CONSIGLIO D’EUROPA, 2008) troviamo altri documenti che hanno affrontato aspetti specifici in relazione all’apprendimento linguistico e alla promozione di politiche finalizzate allo sviluppo di sistemi educativi miranti a un’educazione plurilingue e pluriculturale. Essa

parte dai repertori plurilingui e pluriculturali degli allievi, caratterizzati dalla pluralità linguistica e culturale delle società moderne. È una educazione linguistica globale che investe tutte le lingue presenti e insegnate nella scuola (lingua/e di scolarizzazione, lingue regionali o minoritarie, lingue della migrazione, lingue straniere e classiche) e tutte le aree disciplinari. La sua finalità è duplice: formare la persona e sviluppare la competenza plurilingue e interculturale. Questa competenza è la capacità di un locutore, inteso come attore sociale, di mobilizzare il proprio repertorio di risorse linguistiche e culturali in modo adeguato rispetto alle circostanze e agli interlocutori per comunicare ed interagire. È, al tempo stesso, la capacità di far evolvere questo repertorio. Quest’ultimo è composto da risorse proprie di ogni lingua e delle culture ad essa relative e da risorse trasversali, comuni a più lingue e culture (CAVALLI, 2012: 213).

La competenza plurilingue e interculturale è stata oggetto di una intensa riflessione che ha condotto alla definizione di diversi modelli teorici, tra i quali quello molto influente di Michael Byram (BYRAM,1997) e quello, specificamente destinato all’ambito pedagogico, di Denise Lussier (LUSSIER, 2007).

Quest’ultimo risulta particolarmente interessante, anche perché finalizzato all’utilizzo in ambito educativo e scolastico e pensato soprattutto per i giovani apprendenti (a differenza di quello di Byram che ha un ‘pubblico’ potenziale più vasto, dai bambini agli adulti e dall’ambito educativo alla formazione professionale).

Il quadro di Lussier comprende tre dimensioni: cognitiva (knowledge), delle abilità (skills) ed esistenziale (being), all’interno delle quali definisce il livello più alto del dominio esistenziale transcultural interpretation.

Ciò che le parole degli apprendenti evidenziano, peraltro, è che non sempre gli autoctoni (tra i quali talvolta gli stessi insegnanti), hanno sviluppato un’apertura e impiegato metodologie percepite come adeguate dai giovani delle seconde generazioni.

Infatti, le metodologie (e le soggiacenti rappresentazioni culturali) di alcuni insegnanti delle scuole italiane non riescono a colmare gli svantaggi di partenza di questi alunni, in particolare per quanto concerne le competenze nell’italiano lingua dello studio.

A tale riguardo, studi recenti confermano che l’area dell’istruzione degli alunni di origine straniera resta per l’Italia favorevole a metà: infatti,

anche se gli immigrati di età inferiore ai 18 anni hanno accesso all’istruzione in Italia, gli alunni nuovi arrivati ​​ricevono scarso aiuto nell’accesso a tutti i tipi di scuola (ad es. istruzione superiore). L’Italia deve ancora investire nella sua crescente diversità di alunni e rendere la parità di accesso e l’educazione interculturale una realtà nelle scuole di tutto il paese. Inoltre, vi è una mancanza di sostegno per gli insegnanti, che potrebbe creare ulteriori barriere per gli alunni immigrati. (RAPPORTO MIPEX, 2019)

La marginalizzazione a cui sono relegati i ragazzi provenienti dalla migrazione anche a causa dei risultati inferiori a quelli dei compagni e degli insuccessi scolastici interroga dunque le teorie e le prassi del nostro sistema d’istruzione, che non è evidentemente ancora in grado di favorire la coesione sociale così come auspicato dalle istituzioni europee.

Come superare tale impasse? Le vie indicate dai documenti europei definiscono concetti e pratiche di sicuro interesse e valore, ma nella parzialità della loro ricezione da parte delle istituzioni scolastiche e nella frammentazione degli interventi (dovute anche all’autonomia scolastica) risiedono alcuni dei limiti a una loro proficua realizzazione (SANTERINI, 2006). Appare dunque auspicabile un rinnovamento della didattica e il superamento degli ostacoli che un’organizzazione scolastica spesso tendente al perpetuarsi di prassi consolidate comporta.

Conclusione

Con il costante aumento delle classi multietniche, educare al plurilinguismo e all’interculturalità, all’esperienza dell’alterità e della diversità culturale è un obiettivo essenziale della scuola e trasversale rispetto alle discipline. Infatti, ogni materia insegnata a scuola è un universo culturale, un luogo di incontro e di contatto con altre forme di alterità (CONSIGLIO D’EUROPA 2016: 98). Dalla messa in relazione tra i dati da noi ottenuti rispetto alle materie che i ragazzi preferiscono, le lingue, e le materie in cui essi riscontrano maggiori difficoltà, tra le quali l’italiano, è emersa una situazione in cui le differenze di repertori e di competenze linguistico-culturali costituiscono ancora oggi fonte di difficoltà per gli apprendenti, così come per l’istituzione scolastica, la quale non è ancora in grado di gestire pienamente tale pluralità. Le azioni da intraprendere ci vengono suggerite dai ragazzi stessi, e potrebbero consistere in un nuovo approccio allo studio delle lingue e culture straniere, le quali, tolte dal loro “statuto” di “materie”, possono costituire il punto di partenza per un nuovo approccio alla didattica e all’inclusione. Attraverso l’impiego e la valorizzazione di ciascun tipo di repertorio, si potrebbe pensare, ad esempio, all’elaborazione di un curricolo che parta dai contesti sociolinguistici degli apprendenti. Tutte le lingue, infatti, (lingue regionali o minoritarie, lingue non territoriali) sono entrate a far parte del curricolo di diversi paesi europei, in quanto «danno conto della diversità linguistica e appartengono al patrimonio culturale immateriale dell’umanità» (EURIDICE 2017: 48).  La scuola potrebbe allora considerare i repertori linguistico-culturali ereditati e/o pregressi degli apprendenti allofoni come una risorsa sulla quale è possibile basarsi per ulteriori apprendimenti (CORTIER, CAVALLI 2013: 10) e per nuove dinamiche d’inclusione sociale.

Tuttavia, come già sottolinea il Consiglio d’Europa, l’

attuazione di una educazione plurilingue e interculturale e di una prospettiva trasversale si scontra (…) con una serie di resistenze da parte degli attori sul campo, ovvero da parte degli insegnanti – compresi coloro che lo diventeranno. Queste resistenze possono derivare dalle rappresentazioni sociali o da teorie personali relative alle lingue e alla loro acquisizione (CONSIGLIO D’EUROPA 2016:112)

Subentra inoltre la questione legata alla legittimità: come può un docente monolingue farsi portavoce e promotore del plurilinguismo? Come può farsi mediatore di più sistemi culturali se proviene da un retroterra monoculturale? La risposta, che è anche la soluzione, risiede nella formazione.

Una formazione che, come già sperimentato in alcuni contesti, «miri sia a trasmettere dei saperi e delle abilità sia a lavorare sulle rappresentazioni al fine di sostenere i docenti nelle loro attività in classi sempre più eterogenee da un punto di vista sociale, culturale e linguistico.» (CONSIGLIO D’EUROPA, 2016: 114-115).

In conclusione, per quanto non più recenti, i documenti europei citati appaiono punti di riferimento ancora validi e attuali ai fini della realizzazione di un’educazione plurilingue e interculturale che, di fatto, non ha ancora avuto piena attuazione nel sistema scolastico italiano.

 

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Per citare questo articolo:

Sabrina ALESSANDRINI, Francesca GISBUSSI, «Classi plurilingui e pluriculturali in Italia: la parola di apprendenti originari dell’Africa francofona. Quali criticità, quali approcci?», Repères DoRiF, numéro hors-série Varia, DoRiF Università, Roma, febbraio 2024, https://www.dorif.it/reperes/sabrina-alessandrini-francesca-gisbussi-classi-plurilingui-e-pluriculturali-in-italia-la-parola-di-apprendenti-originari-dellafrica-francofona-quali-criticita-quali-approcci/

ISSN 2281-3020

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